Di rivelazioni, possibilita’ e altre cose che si mangiano!

lago

Poi una risata sguaiata attirò la sua attenzione. Qualcuno, un volto qualunque seduto a un posto qualunque in fondo al tavolo, rideva poco elegantemente lasciando intravedere la poltiglia di cibo e saliva nella bocca. Un cameriere fece scivolare una posata dai piatti impilati, con un gesto sgraziato ma veloce del piede ne fermò la corsa e un sorriso di autostima gli allungò gli angoli della bocca, poi si abbassò per raccoglierla ma due piatti caddero a terra e il sorriso si trasformò in un’imprecazione ad alta voce. Qualcuno rise, qualcuno no. Una mamma indignata spiegava al figlio che il cameriere aveva uno “ZIO SPORCO”. Lena sorrise e tornò a guardare l’uomo che rideva al suo tavolo, aveva appena messo in bocca un altro boccone e, incurante degli sguardi disgustati degli altri commensali, continuava a ridere a bocca aperta. Il vento fresco portava l’odore dei gelsomini dalla ringhiera della grande terrazza e dei bambini correvano sotto la tettoia da cui i glicini pendevano sui tavoli come le vecchie di paese, affacciate ai balconi a curiosare. Un raggio di sole caldo e poi l’ombra umida di una nuvola scura regalavano un senso ibrido di fresco primaverile e stantio di fine agosto. Si avvicinava un temporale estivo. Lena sbadigliò e, stirandosi sulla sedia con le braccia rivolte ai glicini, chiuse gli occhi e pensò alla serenità dei suoi quindici anni. Il futuro si stagliava all’ orizzonte, incerto e meraviglioso. Poi un colpo al fianco destro.

“ Non è molto femminile stirarsi così a tavola…”

Marco. Ancora un ragazzo ma decisamente troppo grande per lei. Non c’era molto raggio d’azione per una civetteria e Lena si limitò a rispondere inacidita:

“ Anche tu non sei molto delicato. Ho ancora il tuo gomito infilato tra le costole, te lo restituirò’ a fine giornata”.

Una leggera folata di vento gli spostò la lunga frangia, lasciando che il castano degli occhi fosse illuminato dal sole, poi ammiccò un sorriso facendole capire che l’aveva trovata simpatica e tornò a parlare con qualcuno seduto difronte a lui, un uomo senza volto. Lena fissò l’uomo dall’ altra parte del tavolo e poi tutte le persone che erano intorno, anche il tizio che rideva a bocca aperta, erano tutti senza volto, come se Dio ci avesse passato sopra un dito, sfumandone i contorni. Si strofinò gli occhi e guardò Marco. Era nitido e la stava fissando.

“Vuoi vedere una cosa, Lena?”

Le afferrò la mano e la costrinse ad alzarsi senza aspettare la risposta di lei, che lo seguì senza dire una sola parola. Lasciarono il tavolo e si diressero verso la ringhiera dei gelsomini. Lei si sporse e si meravigliò della campagna che si estendeva limpida fino ai monti, scuri e lontanissimi.

“Sta per piovere”

Disse Lena fissando delle ombre nel lago lì vicino.

“Ma che stai guardando?”

Rispose Marco, ridendo

“Guarda lì giù’, in quello spazio a destra dietro le vigne”. Lei abbassò lo sguardo e gli occhi cominciarono a muoversi velocemente cercando qualcosa a destra, qualsiasi cosa fosse diverso da vigne, piante, fiori… e poi li vide, un uomo e una donna facevano l’amore, buttati a terra, sicuri che nessuno potesse vederli.

Lena portò le mani sulla bocca aperta e sgranò gli occhi increduli.

“Ma che fanno? Sono matti!”.

Disse con un sorriso misto a eccitazione, come se avesse scoperto la cometa di Halley.

“Si cercano. Si sono appena conosciuti. Lui la tocca delicatamente perché ancora non sa fin dove può spingersi, lei gli chiede di guardala mentre fanno l’amore perché vuole sapere quanto la desideri, e sono ancora vestiti perché c’è ancora imbarazzo tra loro”.

“Come sai tutte queste cose?”

Gli chiese.

Marco le strinse di nuovo la mano e la portò in un altro punto della terrazza, per vedere la coppia da un’altra angolazione. Più vicino.

“Siamo noi”

Disse con la voce spezzata di un vecchio nostalgico.

Lena sbottò a ridere e gli lasciò la mano credendo in un approccio viscido di lui, ma Marco le prese il viso tra le mani e la costrinse a guardare di nuovo. Le pupille di lei si fecero enormi per mettere a fuoco. Come poteva essere? Erano davvero loro, almeno vent’anni dopo. Lena era incredula, eppure si riconosceva nella gestualità di quella donna, nel modo in cui le piaceva toccargli il viso e adorava il modo in cui lui le stringeva le mani nel piacere. Poteva quasi sentirlo.

“Vieni”

La voce di Marco arrivava come un’eco. Sembrava lontanissima. Tutto era rallentato, lui, lei, i due che facevano l’amore e anche il vento cessò di soffiare. D’improvviso il locale fu vuoto di rumori, di risate e un silenzio assordante si fece spazio. Non c’era più nessuno e il mondo divenne immobile.

Marco le riprese la mano e si diresse in una sala all’ interno.

Tutto era immoto come in una fotografia. Un tizio era rimasto fermo nel gesto di raccogliere una moneta caduta a terra, mentre pagava il conto. Una cameriera prendeva l’ordine a un tavolo con un sorriso fisso e una mollica rimase sospesa in aria, lanciata da un ragazzino alla bambina del tavolo accanto.

Marco si fermò al centro della sala e cominciò a guardarsi intorno come se stesse cercando qualcosa di preciso. Qualcuno.

“Ci siamo” esclamò.

“Cosa? Che vuol dire? Dove siamo?”

Lena cominciò a guardarsi intorno come se delle persone dovessero sbucare all’improvviso da dietro le tende o da sotto i tavoli con una telecamera nascosta, gridando allo scherzo.

“Guarda a quel tavolo”

La voce di Marco era di nuovo nostalgica.

Un uomo e una donna in abiti eleganti erano seduti e si tenevano per mano tenendo le dita intrecciate tra loro, con l’altra mano tenevano dei calici alzati. Brindavano a qualcosa. La fiamma della candela sul tavolo era ferma, ma indicava una serata romantica, forse un anniversario. Erano marito e moglie. Erano di nuovo loro, Marco e Lena, e sembravano amarsi molto. Rimase ferma a guardare quella coppia statica, con lo sguardo sorpreso di chi vede correre un cane con le rotelle al posto delle zampe.

Che cosa avrebbe potuto dire? Tutto era così assurdo e eccitante allo stesso tempo. Nessun pensiero le passò per la mente, nè alcuna parola venne fuori dalla sua bocca.

Marco accennò a un sorriso e la condusse a un altro tavolo. La coppia di prima, loro, era invecchiata di altri vent’anni almeno. Seduti allo stesso lato del tavolo, appoggiavano una la testa su quella dell’altro e guardavano con aria malinconica delle vecchie foto. Lena guardò più da vicino l’immagine ormai ingiallita e si riconobbe insieme a Marco, giovanissimi, con gli stessi abiti che indossavano ora. Erano seduti a terra e c’era dell’acqua sullo sfondo, forse era il mare. Lui le regalava un fiore e sua madre li guardava maliziosamente. Chi sa chi aveva scattato la foto? Pensò guardando Marco negli occhi, che divennero improvvisamente tristi. Guardava nel fondo della sala, in un angolo avvolto dalla penombra. Seduto a un tavolo che non era apparecchiato, c’era un uomo anziano. Con le mani poggiate sul bordo del tavolo fissava un punto nel vuoto. Lena fece un passo in avanti per avvicinarsi, ma Marco le strattonò la mano, quasi avesse paura di avvicinarsi a quella figura spenta. Sapeva… e anche Lena cominciò a intuire, ma gli strinse forte la mano e ora era lei che conduceva lui attraverso la stanza, intorno ai tavoli, alla gente immobile, fino all’ uomo anziano, fino a se stesso. Le sopracciglia bianche, folte, formavano un arco intorno agli occhi infossati e rugosi. Due grandi righe incorniciavano gli angoli della bocca che puntavano verso il basso. La postura era dritta, impettita come quella di una statua o un soldato sull’ attenti, non perché il tempo si era fermato come per gli altri, ma perché quell’ uomo, Marco, doveva aver vissuto una vita fatta di regole e rigidità, di imposizioni autoinflitte e abitudini e rinunce. E aveva il collo grosso, perché la solitudine di mille vite, che aveva ingoiato a forza, si era fermata lì.

“ Che hai fatto della tua vita? Sei… solo”

Disse Lena, commossa alla vista di quell’ uomo avvolto dalle ombre della sala e dal buio della sua vita, giunta quasi al termine, con gli occhi vuoti di speranza per un altro futuro. Non c’era più tempo per altro.

“E credi che sia l’unico?”

Rispose Marco quasi rabbioso.

“Guarda bene”

Continuò alzando la voce.

La prese alle spalle e cominciò a spingerla verso un altro tavolo, all’ altra estremità’ della sala, vicino una finestra che dava sul lago dove prima lei aveva visto riflettersi delle nuvole scure.

Una donna anziana sedeva da sola a un tavolo non apparecchiato. Con un gomito poggiato sul tavolo e il mento sul dorso della mano, guardava fuori dalla finestra. Doveva aver riso molto nella sua vita, forse era stata davvero felice o, forse, solo molto allegra ma le rughe della sua bocca erano quelle di una donna che era stata raggiante. Poi Lena le fissò gli occhi e si riconobbe nello sguardo malinconico, lo stesso che aveva ogni volta che il cielo preannunciava la pioggia. Forse era per questo che la donna guardava fuori, sapeva, come Lena quando era ancora sulla terrazza con Marco, prima che tutto cominciasse, che il tempo stava cambiando e che tutto si sarebbe trasformato, che il cielo sarebbe diventato d’acciaio e la pioggia fitta di un temporale estivo le avrebbe inondato anche l’anima.

Lena si voltò di scattato verso di lui e lo afferrò per le braccia.

“Dobbiamo ricordarci di questo posto, dobbiamo fare qualcosa per cambiare gli eventi. Siamo soli. Possiamo non esserlo. Possiamo…”

“Ma è per questo che siamo qui, ora e tra trenta, quaranta, cinquant’ anni, perché ce lo ricorderemo. Siamo e saremo ancora qui, noi due, forse insieme, forse no. Non possiamo sapere quello che sarà delle nostre vite. Tra noi e quelle persone al tavolo ci sono anni di infinite scelte giuste e sbagliate, milioni di treni presi e altri persi, possibilità, rinunce, liti, separazioni e amori. Ma infondo che importa, se alla fine della vita staremo comunque seduti qui a ricordarci di noi due?”

Il cuore di lei batteva forte. Non la capiva l’arrendevolezza di Marco ed era furiosa per l’impotenza che quella situazione le imponeva. Avrebbe voluto gridare a quell’ uomo anziano di voltarsi a guardare la donna alla finestra, di riconoscerla e di amarla ancora perché lei era lì ad aspettare ancora lui. Gli avrebbe fatto vedere la coppia sposata al tavolo e gli avrebbe imposto di capire che cosa aveva perso. E poi guardò Marco, ancora giovane, e con le lacrime agli occhi lo implorò di ricordarsi di lei, sempre, ogni giorno perché solo cosi’ il futuro sarebbe potuto cambiare e loro non sarebbero mai stati soli. Sarebbero stati la coppia di anziani seduti al tavolo a guardare le foto di loro in quel giorno assurdo in cui passato, presente e futuro si intersecavano mostrandosi in tutte le opportunità mancate. Oh Dio c’era da impazzire a pensare al tempo.

“ Amami sempre, sempre… sempre”.

Continuava a ripetere Lena, e poi di nuovo un colpo al fianco.

“Sempre cosa?”

Chiese Marco ridendo alla vista di lei che si risvegliava, ancora seduta al tavolo sotto i glicini.

“Dormito bene, ragazzina? Non mi era mai capitato di vedere qualcuno dormire al tavolo di un ristorante”

E rise forte.

Lena si tirò su di scatto. Marco le aveva dato un’altra gomitata e lei si era svegliata con la testa appoggiata alla spalla di lui.

Il locale si era quasi svuotato e l’uomo che prima rideva con la bocca piena, propose una passeggiata al lago.

Camminarono attraverso la campagna e le vigne sotto il locale. Lena si voltò a guardare la terrazza di gelsomini alle sue spalle. Era da lì che si vide fare l’amore con Marco nella vigna che ora percorreva, vent’anni dopo. Abbassò lo sguardo imbarazzato, come avesse paura che lui potesse leggerle nel pensiero e continuò a camminare. Il lago era finalmente davanti a loro e rifletteva i colori di un tramonto in arrivo. Si sedettero a terra mentre gli altri si sparpagliavano in giro, commentando il panorama con frasi banali. I pensieri di lei erano intralciati dal ricordo di quel sogno incredibile e divenne silenziosa. Marco si mise un filo d’erba in bocca come fosse una sigaretta. Anche lui era silenzioso ma d’un tratto poggiò la sua testa a quella di lei. Rimasero fermi qualche minuto, senza dire una parola, stanchi come se il sogno di lei lo avessero davvero vissuto entrambi. Poi si rimise dritto sulle spalle e lei sentì il rumore di altri fili d’erba che venivano strappati. Qualcuno scattò una foto. Sua madre li guardava maliziosamente… mentre lui regalava a Lena un fiore.

 

Ti amo non si dice, Ti amo non si fa.

racconto

 

 

 

  • Beh, adesso che sei morta te lo posso dire, ti amo è una frase compromettente, non si dice a chiunque.
  • Non ero “chiunque’’
  • Sì ok, dai che hai capito. “Ti amo” e “Non ti amo” sono frasi che si dicono a qualcuno di speciale.
  • Ma pensa quanto ero fortunata, allora… me le hai dette tutte e due.
  • Ho letto da qualche parte che il sarcasmo muore insieme al corpo.
  • Hai letto una stronzata, non ti pare?
  • Infatti… Ma com’e’ lì? Come si sta? Hai incontrato qualcuno che conosci? E le ali? Quelle sono una stronzata, sii sincera.
  • Non so che dirti, non ho visto proprio nessuno, ancora, forse perchè sono appena morta. Le ali? No, quelle non ce le ho, ma magari ti spuntano dopo un po’ che sei qui. Chissà se pesano? Capirai, col mal di schiena che avevo sempre. A proposito, non ce l’ho piú, è come essere in acqua, a dire la verità, non sento il peso del mio corpo. Mi sembra di fluttuare, questa è l’unica stranezza, per il resto non mi pare neanche di essere morta. Forse non lo sono, infondo sono qui a parlare con te, no? Hai una sigaretta?
  • Ma perchè, si puo’ fumare?
  • Non lo so, ma non mi pare ci siano cartelli che lo vietino, e poi che altro potrebbe accadermi? Un cancro all’anima?
  • Hai sempre avuto questo umorismo nero. Non mi è mai piaciuto, non lo capisco, non è divertente.
  • E dai, sorridi un po’… questo posto è un mortorio.
  • Che hai fatto quando sei… partita?
  • Partita?
  • Ma sì, dai, sai come si dice… partire è un po’ come morire.
  • Sì ma morire è partire un po’ troppo, non credi?
  • Mi rispondi? Che hai fatto?
  • Non ho fatto nulla. Un attimo prima ero viva e quello successivo ero qui, con te. Non ho memoria di quanto sia accaduto nel mezzo.
  • Niente, davvero?
  • Te lo giuro, solo… un silenzio di tomba.
  • Quanto sei stronza, la devi smettere con queste battutacce.
  • Mio Dio però che lagna che sei. Son quasi contenta di essere morta e di non vedere quella tua faccia sempre appesa, di non sentirti sbuffare o lamentare per qualsiasi cosa. E poi perchè sono qui? Che mi hai chiamata a fare?
  • Non ti ho mica chiamata io, eravamo già qui a parlare da… non ricordo da quando, in effetti. Qual è il momento esatto in cui sei arrivata?
  • Non sono mai arrivata, credo di esser stata sempre qui, ad aspettarti. A proposito, dov’eri?
  • Al tuo funerale.
  • Ah, che bravo. Dai, racconta. c’era tanta gente?
  • Mancavi solo tu
  • Ahahaha… davvero, avrei voluto esserci. Questa cosa che non si possa assistere al proprio funerale, è una stronzata. Che diamine, in fondo ero l’ospite d’onore. Mi sarei portata un camion di girasoli. Tu me li hai portati, i fiori?
  • Te li hanno portati tutti, anche io, ma niente girasoli. Rose e gigli bianchi, la bara ne era ricoperta, poi c’erano cuscini di fiori colorati, misti, un po’ troppo arancioni per i tuoi gusti, ma si intonavano davvero bene al vestito di tua cugina, quella stronza con la puzza sotto il naso. Tuo padre e tua madre sembravano invecchiati di mille anni e tuo fratello aveva la faccia che ricordava la spiaggia della Normandia, dopo lo sbarco. Io e mia madre ci siamo seduti in fondo alla chiesa, per non disturbare e perchè l’odore di incenso mi fa sempre vomitare.
  • Ne bastava uno, di girasole, il tuo. Se mi avessi amata ancora, avresti girato per tutta la città in cerca di un girasole, anche vecchio, anche finto.
  • Non cominciare con questa storia dell’amore, ormai sei morta. Sai di essere stata speciale, per me, e poi non credevo che da morta ti saresti curata di sapere che fiori ti avrei portato.
  • Ma che cazzo vuol dire speciale? Meglio di alcune ma peggiore di altre? E sì, invece, come vedi me ne curo eccome!
  • Speciale vuol dire speciale, mica è una parola a libera interpretazione, e poi i morti non sanno tutto? Non avete poteri particolari? Che ne so, spostate le cose o vi trasformate in qualcos’altro?
  • Ci trasformiamo? Ma che cazzo siamo, i Power Rangers? E non siamo neanche Dio, non siamo onniscienti, non siamo niente di piú di quello che eravamo in vita e infatti sono ancora qui a chiederti se, per caso, fosse amore, se ti fossi sbagliato, se avessi confuso la stanchezza di un rapporto stantìo con la mancanza di amore… e avessi detto di non amarmi, alla fine. D’altra parte come si fa a non amarmi? sono adorabile, cazzo! E come hai potuto essere tanto cattivo? Lasciarmi in quel modo, è da vigliacchi. Illudermi, palesarmi il miraggio di una vita insieme e all’improvviso abbandonarmi con la scusa di non provare piú niente e, peggio ancora, continuare a scrivere e chiamare e uscire e farmi pensare che qualcosa ancora c’era e indurmi a pensare che eri solo confuso e che invece mi amavi ancora, ma non lo sapevi per certo. O credevi davvero che avrei potuto rimanerti amica e parlare con te dei tuoi rapporti con altre donne, vederti costruire la vita che avevamo pensato per noi, con un’altra che prendeva il mio posto? E ADESSO SONO MORTA, PERDIO! Non si fa, non si fa questo a nessuno e a me meno che agli altri, perchè io sono questa cosa di cristallo che ti sta ancora davanti.
  • E dai, sono stanco. Incredibile quanto stanchi un funerale. Forse è il dispiacere, ti cammina sotto pelle come un liquido denso, è come avere qualcuno sulle spalle tutto il giorno e non sapere come scrollartelo di dosso.
  • Vuoi dire che hai il coraggio di dormire proprio adesso, dopo il mio funerale? Ma non puoi comportarti come tutti quelli che perdono qualcuno di “speciale’? Non so, stare sveglio tutta la notte a pensare a me, a guardare le nostre foto, ad ascoltare le nostre canzoni e a piangerci su? Non puoi disperarti per la mia mancanza?
  • Ma se sei ancora qui…
  • Dicono che le anime di chi ha lasciato qualcosa in sospeso, rimangano a vagare nei posti in cui hanno vissuto finchè non risolvano le questioni insolute.
  • E tu che hai da risolvere?
  • Io voglio sapere se mi hai amata fino alla fine.
  • La fine di cosa?
  • La mia, idiota!
  • Ti amo non si dice, te l’ho spiegato, ma si fa, si dimostra l’affetto che si prova per qualcuno con i gesti, con le attenzioni, con la vicinanza e tutte quelle cose che voi donne volete.
  • No, non si fa, cioè si fa ma anche le parole sono importanti. Le donne hanno bisogno delle parole. Le attenzioni possono essere confuse con qualcosa di importante e, magari, non lo è. Noi donne siamo un casino. Perchè confondere delle menti già tanto incasinate?
  • Domani ti porterò dei girasoli. A proposito, tua madre ha fatto mettere sulla tomba quella tua foto che non ti piaceva, quella in cui si vede che hai i denti storti. C’è scritto qualcosa vicino al tuo nome… “Figlia adorata”, mi pare. Ha dimenticato di aggiungere “Rompi coglioni fino alla fine… e anche dopo”.
  • Le avevo detto di farci scrivere “Torno subito”.
  • Già, sarebbe stato nel tuo stile.
  • Hai lasciato i piatti sporchi nel lavandino e i fagiolini ancora da cuocere. Ci penso io, mentre riposi un po’? Sai… i funerali stancano.
  • I piatti li sistemerò domani. Lascia stare i fagiolini, se li fai tu, tanto vale buttarli subito.
  • Mi sento strana.
  • Che vuoi dire?
  • Non so, piu’ leggera. Mi pare di avere le mani trasparenti, posso guardarci attraverso.
  • Certo, sei un fantasma.
  • E’ quasi l’alba, credo di dovermene andare.
  • Ah, come i vampiri.
  • Sì, come loro. Allora è meglio che vada, prima che ti succhi via tutto il sangue dal collo. Terrai con te le cose che ti ho regalato, vero? Non le metterai in una scatola in cantina.
  • Non ce l’ho neanche, una cantina.
  • Su che hai capito. Anche quella piccola scultura che ti ho dato anni fa. Apri gli occhi, dai, quella sulle scale. Un uomo abbraccia una donna in segno di protezione, un tempo credevo che ci rappresentasse.
  • Sì, sì. Non ho voglia di aprire gli occhi, sto così bene qui, sul divano…e ho sonno. Non metterò mai via le tue cose, le nostre, sono importanti per me, “speciali”… e mi mancherai, tanto.

Nina… sei ancora qui? Nina… va bene, te lo giuro, fino alla fine.

Nina…

 

Di amori, conseguenze, parolacce… e altre cose che si mangiano!

cucina
“ Nessun problema e’ irrisolvibile di fronte a una cena preparata con amore. Le persone vanno prese per la gola.” Quante volte sua madre, che era una cuoca eccellente, le aveva ripetuto queste parole. E infatti Tonia voleva prendere Michele per la gola. Stringergli le mani intorno al collo e strappargli via la faccia dalla faccia. Uccidere quella freddezza che era nata sul suo volto nell’ultimo mese e rimodellargliene un altro. Plasmargli di nuovo il suo bel sorriso e ritrovare le antiche atmosfere. Capirsi al primo sguardo, ridere di qualcuno che non fosse presente, parlar male di altri assenti e vivere con l’assoluta consapevolezza di essere irrimediabilmente plasmati l’un l’altra. Ma che era successo? Perche’ era passato da “Amore mio” a tanto distacco? Quando erano insieme, Michele tentava di sembrare maledettamente sereno ma lei sentiva, sapeva che qualcosa si era ineluttabilmente compromesso, spezzato. A Tonia il freddo camminava sotto la pelle e, nonostante fuori imperasse ormai la primavera, non poteva non sentirsi catapultata in un inverno infinito. Era sempre cosi’, ogni volta che Michele era stanco o deluso o inquieto, il gelo gli trapelava dai pori e gli occhi gli si facevano piccoli e velenosi, vitrei e fissi come ce li hanno i serpenti. Pensava, Tonia, che forse il cuore di lui era stato nutrito a rancore e rabbia e, per questo, l’amore non aveva mai davvero attecchito al suo interno. La sua anima e tutto il bello che un’anima che si rispetti ha insito, non era libera di provare. L’amore che Michele da anni dichiarava a Tonia non era che un insieme di pensieri positivi, di benessere psicofisico, seppur altalenante, e di prospettive per un futuro in compagnia di qualcuno.
La verita’, l’unica che prendeva piede nella mente di Tonia, era che Michele non volesse morire solo. Che avesse scelto lei, che era una donna carina e con una discreta cultura, non per amore ma per contrastare il proprio senso di solitudine.
Con un carattere di merda come il suo, d’altra parte, sempre pronto a criticare tutto e tutti, sempre a lamentarsi di qualunque cosa, chi avrebbe voluto vivergli accanto? E infatti tutte le sue storie se n’erano andate a finire a puttane. Le donne che gli erano mal capitate, prima o dopo, erano fuggite alla ricerca di un uomo piu’ dolce, piu’ sereno e anche piu’ divertente. Tonia no! Con i sentimenti al limite dell’idiozia, si era lasciata amare da Michele nel modo sbagliato, convinta di poterlo cambiare, nel modo piu’ sofferente, convinta di vivere un amore passionale. Si era lasciata amare per compagnia. Eppure era rimasta. Incastonata come una pietra in un anello antico, e voleva ancora rimanere. Viveva quell’amore come una testimonianza, perche’ si puo’, si deve cambiare e scendere a infiniti compromessi, con fatica anche ma con uno scopo comune. E intanto preparava un’altra cena, inconsapevole del fatto che sarebbe stata l’ultima.
Era tardi. Michele stava arrivando e lei era ancora alle prese con i tentacoli delle seppie. Collosi e disgustosi, le si intorcinavano alle dita formando viscidi anelli. Il pesce era ancora da preparare e le verdure da lavare. Ma come diamine aveva potuto ritardare in quel modo? E va bene, d’altra parte Tonia il ritardo ce lo aveva nei geni. Le mancava proprio l’orologio interno, oltre a quello da polso. Era talmente abituata a rincorrere sempre il tempo che sicuramente sarebbe anche morta con qualche giorno di ritardo, e nessuno se ne sarebbe sorpreso.
L’odore dell’aglio rosolato, indicava il momento di aggiungere i pomodori, poi il sale, ma poco perche’ Michele mangia sciapo, poi le seppie e infine il vino per sfumare. Avrebbe potuto preparare un primo piatto di pesce, delle linguine allo scoglio o degli ottimi spaghetti con tonno fresco, zucchine e finocchiella selvatica, ma Michele non mangia la pasta, la sera, dice che gli fa venire mal di schiena. No, non mal di stomaco, proprio mal di schiena. L’attinenza tra la pasta e la schiena, Tonia non riusciva proprio a capirla. Intanto il pomodoro si separava dalle bucce e un sugo profumato cominciava a invadere la cucina.
“CRISTO… IL POMODORO!”. Michele non mangia pomodoro, la sera, e forse neanche di giorno. Dice che gli disturba qualcosa. Boh… forse l’orecchio sinistro. “E ORA?”. Con scatto felino verso il cassetto delle posate, Tonia afferra una forchetta e inizia a togliere tutti i pomodori, ma il sugo ormai e’ fatto e le seppie sono di un rosso meraviglioso e contrastano il giallo ansia della faccia di lei. Potrebbe togliere il sugo con un cucchiaio ma poi i crostini al sugo di seppia diventerebbero crostini alle seppie senza sugo. Ormai, una parte della cena e’ andata a farsi fottere. Tonia si dirige verso il frigo e afferra una busta di lattuga. Michele ne mangia tanta di insalata e gli piace di piu’ se dentro c’e’ anche il finocchio. “Dov’e’ quel maledetto finocchio?”. Era sicura di averne uno, da qualche parte. Eccolo! Tonia lo agguanta ma quello non vuole venir via. E’ completamente attaccato al fondo del frigorifero da una massa informe di ghiaccio.

“Ma che ha questa giornata?”. Si ripeteva mentre imprecava contro un povero finocchio e prendeva a calci il frigo.
“Va bene, frocio d’un vegetale. Torno piu’ tardi, intanto cerco altro!”
Lo sguardo si accese di fronte a un cestino di pomodorini freschissimi e poi si spense nuovamente… “PERCHE’ SE MANGIA QUESTI CAZZO DI POMODORINI, POI GLI FANNO MALE I PIEDI!”
A ogni imprecazione verso ortaggi, carboidrati, piedi, orecchie, schiena e Michele stesso, lo stomaco le si rimpiccioliva dando micro crampi continui. Non avrebbe mangiato nulla, quella sera, come da un mese a quella parte. Qualcosa, dentro di lei, offuscava ogni pensiero o gesto positivo e tutto andava inevitabilmente storto. Prese delle carote e comincio’ a farne rondelle per l’insalata.
Davanti a lei il cesto della frutta . Poteva preparare una macedonia. La mascella cadde inevitabilmente a terra. Michele, negli ultimi giorni, si era lasciato convincere da un tipo strano che in televisione dichiarava, a puntate, che la frutta e’ nociva a seconda del proprio gruppo sanguigno.
Hai il gruppo A? GUAI A TE SE TOCCHI LE ARANCE. Hai il gruppo B? SE MANGI L’UVA DIVENTI CIECO… e altre stronzate simili. Ma se fossero state vere? Tonia era terrorizzata. Magari gli offriva una mela e Michele moriva all’istante. Era pure di stazza robusta. Chi ce la faceva, poi, a toglierlo dal pavimento?
“Per carita’, niente frutta!”
Con la mente che vagava altrove, spense il fuoco sotto il tegame con le seppie e comincio’ a pulire il pesce. D’un tratto senti’ il citofono. Michele era al cancello. Lei era spettinata e sapeva di orata. Non c’era il tempo di darsi una sistemata e alla radio era appena finita una delle loro canzoni d’amore, per dar spazio alla pubblicita’ di uno stronzissimo aspirapolvere. Non poteva aspettare un paio di minuti? Giusto il tempo di farlo entrare in casa e di fargli ricordare che quella canzone gliel’aveva dedicata lui, migliaia di volte? Che poi, ma chi e’ che si mette ad ascoltare la pubblicita’ di un fottuto aspirapolvere? Ormai la gente fa la spesa al supermercato e raccoglie i punti. Con quelli ti regalano un fantastico aspirapolvere di marca sconosciuta che non aspira niente, ma almeno hai la sensazione di aver fatto un grande affare, perche’ teoricamente non lo hai pagato.
Corse ad aprire la porta, prima che lui arrivasse, e torno’ in cucina per farsi trovare ai fornelli. Chissa’ perche’, Tonia aveva sempre avuto l’impressione che quella fosse una delle cose cui Michele ambiva. Tornare a casa stanco dal lavoro e trovare lei intenta a preparargli la cena. Finire di prepararla insieme e poi mettersi a tavola a mangiare e raccontarsi la giornata. Magari guardare un film, andare a dormire e poi… chissa’?
Michele entro’ in cucina, lei si volto’ e gli lancio’ uno dei suoi sorrisi a 237, 09 periodico denti, aspettandosi 24000 baci di resto. Eccolo, si avvicinava a lei con un cenno di sorriso.
“Arrivano tutti e 24 mila!” pensava Tonia con gli occhi languidi.
– smichittifisigi –
Fu il suono di un piccolo sfiorarsi di labbra. Una cosa secca, come una prugna rimasta sola in una confezione dimenticata da mesi nella credenza.
“ Cazzo e’ ‘sta roba? Perche’ non mi prendi e mi sbatti sul tavolo da cucina, in mezzo alle orate e alle seppie col pomodoro senza pomodoro?” Penso’ lei raccogliendosi la mandibola da terra e mostrando il volto di chi invece sta dicendo: “Ciao amore, ben tornato a casa. La cena e’ quasi pronta. Mettiti comodo che ti preparo un drink e ti porto pure le ciabattine!”
Lui le diede le spalle e mise sul tavolo una busta piena che aveva portato con se’.
“Ti ho comprato un po’ di cose.” disse.
Un tempo, solo una volta in realta’, le aveva portato dei fiori quando lei lo aveva invitato a cena.
Ora Tonia apriva la busta e il complesso della casalinga cominciava a entrarle nelle ossa.
“Ma guarda, della pasta, del caffe’… persino delle zuppe gia’ pronte. Grazie, non dovevi, davvero. Mettiti comodo, ti preparo un drink. (Le ciabattine te le servo insieme alle seppie) Ho del vino bianco in frigo”.
Stappo’ lui, il vino e ne verso’ per tutti e due. Poi si mise ad apparecchiare la tavola e si offri’ di aiutarla a finire di cucinare.
“Scusami” esclamo’ lei con aria mortificata, “Ho dimenticato che i pomodori ti fanno venire il gomito del tennista. Ho provato a toglierli ma ormai il sugo era fatto. Pero’ ho comprato delle orate freschissime.”
PORCA TROIA… Le orate si stavano bruciando. Mioddio che cena di merda!
Le persone si prendono per la gola ma forse era meglio una minestrina con il brodo di dado. Anzi no, niente dado, Michele non lo mangia perche’ gli esaltatori di sapidita’ sono pieni di schifezze. Meglio il sale, ma non un sale comune… che quello e’ pieno di piombo. Sarebbe meglio fare un salto nella zona sudoccidentale della Bolivia e prenderne un pizzico nella distesa di sale di Uyuni.
(Pensa che cuyuni)
Per fortuna c’era l’insalata, un kg e mezzo.
Quando si misero a tavola, le seppie erano gommose perche’ le aveva spente troppo presto e galleggiavano nel sugo di pomodoro ( solo a vederlo, Michele ebbe un attacco di orticaria sotto il cavo popliteo della gamba destra); Le orate erano stoppacciose, con un retrogusto di carbonella da campeggiatori, l’insalata sapeva di ghiaccio, grazie al finocchio (qualcosa di duro le spacco’ quasi un dente. Era un pezzo del frigorifero) E il vino era finito prima della cena. Lo aveva bevuto lei per calmare l’ansia da prestazione in cucina.
Tutto era andato esattamente come non avrebbe dovuto. Peggio di cosi’ non poteva accadere. O forse si’?
Si alzarono da tavola e sparecchiarono in silenzio. C’era poco da dire. Michele era in guerra con uno stuzzicadenti, troppo impegnato a togliersi una seppia sana dai molari inferiori per dire anche solo una parola. Tonia sgranava parole in una sorta di giaculatoria. Pregava che lui non se ne andasse subito e che la rassicurasse sui suoi sentimenti per lei, nonostante tutto, oppure che le dicesse chiaramente di non amarla piu’. Non era mai stata capace di vivere al centro delle cose. Doveva avere sempre risposte sicure e ferme, alle sue domande.
“Mi ami?” La risposta doveva essere si o no. Non potevano esserci vie di mezzo. Se fosse stata si, Tonia avrebbe affrontato qualunque periodo difficile, con coraggio, perche’ lei, Michele, lo amava davvero molto. Se fosse stata no, Tonia avrebbe accettato la nuova situazione, con altrettanto coraggio e poi sarebbe scomparsa, arruolandosi nella legione straniera, e lei, Michele, lo avrebbe odiato davvero molto.
Nei giorni passati era stato talmente algido che ora che sedevano uno accanto all’altra sul divano, Tonia non sapeva se lasciarsi andare a un tenero abbraccio o rimanere rigida come era lui, che sembrava avere una scopa che lo affliggeva proprio dove il sole non va mai a battere. Poi prese coraggio e appoggio’ la testa nell’incavo del suo braccio. Sentiva il peso di mille domande che voleva porgli. Era alla stregua di un gheriglio sotto la pressione dello schiaccianoci. Gli diede un bacio sulle labbra (smichittifisigi) e chiese timidamente: “Mi vuoi bene?”. Lui continuo’ a guardare la televisione annuendo leggermente con la testa. Sembrava uno di quei cani che si mettono sul cruscotto posteriore, che dondolano la testa quando l’auto e’ in movimento. Aspetto’, tentennando a porre altre domande, finche’ non si addormento’ ancora accucciata tra le braccia di Michele mentre lui guardava un film d’azione. Non era ancora mezzanotte quando lo senti’ alzarsi dal divano e infilarsi la giacca. Stava andando via, come da casa di amici. (La festa e’ finita… gli amici se ne vanno)
“Resta” – disse Tonia con il petto che sembrava spaccarsi per paura della risposta.

“No” – rispose lui, spaccandoglielo in due meta’ esatte.

“Perche’?”

“Perche’ dormo male nel tuo letto. Ci sono le molle e le sento tutte nelle schiena.”

Tonia avrebbe voluto rispondergli che non erano molle, ma pomodori e che ce li aveva messi lei, sotto il materasso, solo perche’ in quel periodo lo odiava come un callo sul mignolo del piede.

Invece chiese:

– “E’ solo questo il motivo? Dimmi la verita’.”

– “Si, solo questo!”

– “Ma che c’e’ un’altra persona?”

– “ Ma quale altra persona? Non c’e’ nessuna… ne’ nuova, ne’ vecchia, ne’ usata.”

(Usata? ma… tipo una macchina o una giacca comprata al mercato delle pulci?)

– “Allora mi ami?”

– “Non cominciamo eh!”

– “ Non cominciamo cosa? Mi ami o no?”

– “ Senti, il sentimento c’e’ sempre ma non e’ che tutti quelli che si amano stanno insieme.”

(Ma che cazzo sta dicendo?)

Tonia era basita. Se due persone si amano, perche’ non dovrebbero stare insieme? La conosceva, lei, la verita’. Sentiva che dietro quelle parole c’era l’ombra di un’altra donna, altrimenti lui non l’avrebbe mai lasciata. Oppure, Michele, semplicemente non l’amava piu’ e non sapeva come dirglielo. Cosi’ Tonia glielo chiese direttamente.

– “ Facciamo cosi’, perche’ non mi dici che non mi ami e la finiamo qui?”

Michele non disse niente ma la sua espressione indicava che non era cosi’, mandando Tonia nel pallone totale.

– “Ma che ci vuole, perdio? Di’ che non mi ami. Se non lo dici mi rimane addosso la speranza che sia solo un brutto momento, che passera’, perche’ mi ami.”

– “Ti posso solo dire che non e’ piu’ come prima. Qualcosa e’ cambiato.”

– “Non e’ piu’ come prima… E com’e’?”

Michele ando’ via quella sera, senza dare risposta, lasciando Tonia nel mezzo di una cosa che non era concreta e non era astratta. Un limbo di parole sospese, di intuiti confusi e domande insoddisfatte. Il tempo passava e tutto l’amore di lei cominciava a tramutare in un dolore insopportabile, in qualcosa che non avrebbe potuto diventare altro che profondo odio e disprezzo per lui e per le promesse disattese. E avrebbe passato il resto della sua vita a maledire quella di lui. Lo avrebbe maledetto nelle lunghe notti insonni, nei giorni chiusi in casa a guardar fuori dalle finestre socchiuse, e lo avrebbe maledetto nei rari momenti di sonno. Lo avrebbe sognato e maledetto, pensato e maledetto, nominato solo per maledirlo, e se qualcuno avesse fatto il suo nome, Tonia avrebbe maledetto anche lui.
Michele era diventato un mostro, per lei. Le aveva divorato il cuore e ci si era costruito una tana per continuare a divorarla da dentro. Lei non rispondeva piu’ al telefono e raramente parlava con qualcuno. Si era chiusa quasi del tutto, per poter vivere con il suo mostro cattivo nel petto, nutrirlo di rabbia e dolore, per non farlo morire e per non dimenticarlo mai. Voleva non amarlo piu’, e l’unico modo era quello di trasformarsi nello stesso mostro che era lui… per essere di nuovo plasmati, per essere di nuovo “Uno”.
Le persone si prendono per la gola. Tonia ripensava spesso a quell’ultima cena con Michele, che nel frattempo aveva cambiato casa. Lo immaginava tornare stanco dal lavoro e dare un bacio a una nuova compagna. Lei gli avrebbe preparato un drink, portato le ciabattine e preparato una cena a base di pomodoro. Lui avrebbe avuto le convulsioni, cecita’ completa a un occhio, Herpes genitalis guaribile in 30 giorni, salvo conseguenze (ma poi gli sarebbero arrivate anche quelle), Herpes simplex, pellagra, colera, eruzioni cutanee, paralisi di un arto inferiore e uno superiore (a scelta), asma, dolori intercostali simili a infarto, acufeni, irsutismo alle orecchie (tipo Koala), impotenza, acne rosacea, orticaria pigmentosa, geloni, impetigine, lebbra e demenza senile. E qualche volta, forse, si sarebbe ricordato di lei.

Di polvere e di anelli

Ho costruito una stanza, molto… molto tempo fa. Una sorta di magazzino dove poter nascondere tutte quelle cianfrusaglie che non volevo, quelle che non potevo e quelle che non riuscivo a buttare via. Ce l’ho in mezzo al petto. Non nel cuore, che si è spostato più a sinistra per far posto alle mie cose, un po’ più in alto, ma proprio nel mezzo. Non ci vado, se non per aggiungere qualcosa, e non ne tiro fuori niente, mai. Non c’è molta luce, perchè quelle cose sono lì per essere dimenticate. Non vorrei inciampare in una sensazione antica, mentre sono lì dentro per aggiungerne una nuova. C’è nascosto qualche desiderio, un pianoforte usato poco, scordato e dimenticato, una madia di paure, un segreto indicibile, un paio di fotografie e abiti ormai lisi, indossati in occasioni appartenute a un’altra vita. E tutto è così talmente impolverato che i colori sono scomparsi. A starci nella penombra, sembra un disegno a matita. Non ci vado, se non per aggiungere qualcosa, e non ne tiro fuori niente, mai. Ma oggi il cielo è diventato livido e, in breve tempo, è iniziato il temporale. Acqua e aria si sono separate. La pioggia è venuta giù dritta, pesante, perpendicolare alla terra, allagando il giardino fin nei suoi anfratti. Le grosse pietre che circondano l’aiuola giapponese, mi sono parse sospese. Il piazzale all’ingresso si è trasformato in una lastra bianca di microsfere di ghiaccio. In questo mese di Luglio, il paesaggio è quello di Novembre. Come in uno stereogramma, all’orizzonte l’immagine è cambiata. Dietro la rigidità dell’acqua, il vento è soffiato ovunque, ma senza vigore. Le fronde degli alberi si sono messe a fluttuare come alghe in fondo al mare, morbide, senza coscienza, senza regole, come i dervish che girano in trance, spinti da forze invisibili e ogni pianta, arbusto o foglia, si è mossa sinuosa in una danza perfetta. In questa dimensione surreale, tra un temporale estivo e una ballata araba, mi sono accorta di avere qualcosa da aggiungere al mio ciarpame. Te. Non perchè non voglia amarti, non perchè abbia smesso di farlo, non perchè non t’amerò per il resto dei miei giorni, e quelli dopo ancora. Perchè ti amo di un amore incondizionato e la mia intera esistenza ruota intorno a questo amore, e la mia vita non prende forma. Mai. Così sono scesa nella stanza, per abbandonarti lì, ma non a terra come un ricordo qualsiasi, sul pianoforte, che t’ho insegnato ad apprezzare. Ho avuto quasi paura a entrare. Ho esitato sulla porta. Ho fatto un passo indietro e poi uno in avanti. Ho afferrato la maniglia e poi l’ho lasciata. Due passi indietro, tre, e poi sono restata ferma a fissare la porta chiusa, per qualche minuto.

Stavo per andarmene, poi un odore stantìo di ricordi e muffa mi ha raggiunta, lasciandomi un senso di nausea che ho subito ingoiato, ma a fatica, come fosse di fango. Ho fatto un balzo in avanti, e ho aperto. E’ entrata un po’ di luce, con me, e ho soffiato la polvere che, aprendo la porta, si è sollevata finendomi nella gola. Ho tossito e qualcosa si è mosso. Forse il più giovane tra i ricordi, qualcosa che ancora non ho dimenticato del tutto. Mi sono affrettata a trovarti spazio tra i tasti bianchi e neri e sono tornata alla porta senza voltarmi. Mentre richiudevo, qualcosa mi ha fermata. Uno strattone mi ha riportata indietro di un passo. Il tuo anello, che è troppo grande per me, si è incastrato alla maniglia. E’ stato come essere afferrata dalle tue mani. E’ stato come udire la tua voce. Non ho pensato, non ho guardato, non ho parlato…

E sei ancora qui fuori, con me.

” Fuggi, Nina ”

Che cos’è poi l’amore, se non il piu’ lesivo dei sentimenti ? Un’emozione bugiarda, una conoscenza ingannevole di noi. L’uninco impulso incontrollabile, capace di distruggere il piu’ forte tra gli uomini. L’amore ha una personalita’ propria, scissa in mille altre. Un’anima propria, potente, in grado di spodestare la nostra. Ci colpisce tutti, come la vista del  primo tramonto. Ci ferisce tutti, come una morte improvvisa. Il peggiore dei mali. Una febbre che invade il corpo e ne divora il cuore lentamente, lasciandoci alla deriva, in un mare senza terra.

A questo pensava, Nina, respirando una notte stellata e una sigaretta alla finestra. Carlo la lasciava, la riprendeva, l’amava, poi la odiava. Forse non poteva stare senza lei, ma continuava a provarci. L’amore di Carlo era un’altalena e in questo perpetuo ondeggiare, Nina aveva finito col perdersi.

Avevano fatto l’amore, e riempito la stanza di risate, mangiato una pizza in due e guardato film idioti. Si erano appartenuti come se le loro vite fossero concentrate in quell’unica notte. Il mondo, fuori, era un fiume silenzioso, incapace di disturbare.

” Ti amo, ti sposerò ”  le aveva detto, e lei finalmente aveva avuto la percezione che tutto potesse accadere davvero. Si sentiva felice. Forte, come se ora niente avesse piu’ potuto farle del male. Carlo, infine, la proteggeva e Nina sentiva la sua anima al sicuro, come un uccello ferito tra le mani di un bambino.

Poi qualcosa accadde. Un mancato appuntamento. Nina disse, o non disse qualcosa. Fece, o non fece qualcos’altro.

Una cosa stupida, agli occhi di lei. Una cosa grave, a quelli di lui. Cercò di recuperare e si presento’ a casa di lui per parlare. I due giorni che seguirono furono un rincorrersi di silenzi e insulti da parte di Carlo.

La luce della sigaretta brillava nella notte e, con stupore, Nina si scopriva serena. Carlo aveva gia’ detto a tutti di averla lasciata. Non aveva perso tempo. Era quello che voleva. La mancanza di Nina era stata una scusa per lasciarla? Probabilmente. Si chiedeva che fine avesse fatto l’uomo con cui aveva trascorso la notte, e chi fosse quello che ora la stava trattando ne’ più ne’ meno di una puttana. Ma lei non era furiosa per gli insulti ricevuti, non aveva paura, non piangeva e non sentiva quel dolore profondo nel cuore, nessuna spada nel petto. Niente. Questo poteva essere spaventoso. Non sentire piu’ niente. Carlo non era più neanche un uomo. In quel momento, Nina pensava a lui come a un’entità. Qualcosa che era passata nella sua vita e che ora era gia’ un ricordo lontano. Rimaneva basita all’idea di aver conosciuto l’amore e di esserne rimasta talmente spaventata da non volerlo più.  Senza accorgersene, aveva trovato il modo di proteggere il suo cuore. Chiuso in uno scrigno di sale, nessuno lo avrebbe piu’ trovato, assaggiato, divorato. Nessun dolore. Nessun amore.

Il nulla l’avrebbe salvata e mandata via, per sempre.

L’amore è un demone malvagio. Ci incanta, ci mente, s’impossessa di noi. Si annida nei meandri della mente, trova il suo trono nel petto, passeggia industurbato sulla pelle e ci consuma. Ma si puo’ sconfiggerlo non facendolo entrare. Si puo’, si deve proteggere il cuore, nascondendolo in uno scrigno di sale.

Un’altra sigaretta cominciava a brillare nel buio.

( Foto: Davide e Betsabea – Chagall )

 

Sahara

Per Francesca la moralita’ di un uomo risiede nei piedi.   “ Nina, ascolta una che e’ piu’ grande di te, la prima volta che vai a letto con un uomo guardagli i piedi, se sono brutti, strani, storti o troppo curati, SCAPPA .  “ Era quel “ troppo curati “ che cozzava con il resto, ma quando Nina glielo faceva notare e chiedeva spiegazioni, Francesca tergiversava tirando fuori un milione di parole senza senso, per spiegare un pensiero nato gia’ contorto.   “ Carlo ha dei brutti piedi, glieli ho visti al mare “.   Nina sbotta a ridere. Non aveva mai pensato di guardare i piedi di qualcuno per scoprirne l’etica, ne’ avrebbe mai pensato che Francesca si sarebbe messa a guardare anche i piedi di Carlo.   “ Carlo e’ roba mia, e anche i suoi piedi. Non ti puoi mettere a fissare i piedi degli uomini delle altre. Non sta bene “.  “ Io non guardo i piedi di tutti, ma tu sei mia amica, e  non posso non assicurarmi che l’uomo che ami non abbia almeno un bel paio d’alluci, dritti e in fila indiana con le altre dita”.  “ Ma Francesca, sono dita di piedi. Mica ci deve suonare il violino “.   Le discussioni sui piedi degli uomini potevano durare interminabili ore. A volte anche giorni. Non le importavano tutte le belle cose che Nina raccontava su quanto si amassero o di quanto lui sapeva renderla felice. Carlo aveva dei brutti piedi, e per questo l’avrebbe fatta soffrire.   Adesso che Carlo se n’era andato, Nina ripensava alle parole di Francesca. Sentiva uno strappo in mezzo al petto, piangeva  e non trovava un buco nel mondo dove andarsi a nascondere. Questo poteva significare solo una cosa: Carlo aveva dei piedi orribili, e lei non lo aveva mai notato.   Che lui avesse un carattere assurdo  se ne accorse quasi subito, ma sua madre diceva sempre “ Chi si somiglia si piglia “ e, a pensarci bene, anche Nina aveva un carattere pessimo. Era sempre stata una donna forastica, indomabile e poco incline alla vita sociale. Si circondava di poche persone, ma quelle giuste, o almeno, quelle che ce la facevano a sopportarla. Si entrava a fatica nella sua vita, ma se ne usciva con una facilita’ sorprendente. Non aveva mai trattenuto nessuno che avesse voluto andarsene. In compenso, aveva cacciato molti di quelli che avevano voluto rimanere per forza. Gli altri li aveva tenuti come fossero un contorno.   Nina era bella. Si muoveva con grazia. Arrivava silenziosa  “ Come una pantera”  ripeteva  Elvira, l’amica di sempre, e di lei tutti dicevano che, in fondo, una donna che si muove con tanta grazia non puo’ non nascondere anche una bella anima. Forse questo attrasse Carlo piu’ di tutto. Quell’anima nascosta che nessuno riusciva a vedere. La stessa che poi, proprio lui, riusci’ a far emergere dalle profondita’ silenziose di lei, e che, alla fine, strappo’ a morsi, restituendole uno straccio lacero. Non se ne faceva piu’ niente, Carlo, di quell’anima. Ormai aveva visto tutto cio’ che c’era da vedere, e non andava piu’ bene neanche come trofeo di caccia. Dovevano esserci altre anime in giro, pensava Nina, perche’ tanta trascuratezza e mancanza di attenzioni potevano significare solo scarsita’ di interesse.  Carlo non l’amava piu’ da tempo, ma per qualche arcano motivo continuava a ripeterglielo.  “ Ti amo Nina “, e lei si aggrappava a quelle parole come un naufrago a una boa in mezzo al mare. Eppure lo sentiva dentro, che non era piu’ amore. Un “ ti amo “ insipido, detto senza volonta’. A richiesta. “ Mi ami” ?  “ Certo “.  Nina impazziva sotto il peso delle parole vuote. Voleva disperatamente che lui le dicesse qualcosa che avesse un suono magico, forte, prepotente, capace di sovrastare ogni altro rumore, e in grado di cacciare le insicurezze di lei e la frustrazione di essere diventata qualcosa di banale e di aver perduto tutto cio’ che di speciale aveva portato Carlo nella sua vita.  Ormai non riusciva neanche piu’ a spiegarsi, Nina, quando gli chiedeva le cose di cui aveva bisogno.  Approcciava a una conversazione camminando in punta di piedi sui vetri. Ogni corda era sempre tirata allo stremo, e Nina si improvvisava funambolo, perche’ ogni parola fuori posto avrebbe spezzato le corde e scatenato il carattere irascibile di lui. E poi un giorno l’essenza di lei venne a galla da sola, senza preavviso, e fu una catastrofe.  “ Giura che non mi tradisci “  gli disse spudoratamente, e lui, con altrettanta spudoratezza, rispose “ Io non giuro mai “.  Fu come una conferma.  Nina si senti’ come se fosse stata appena investita da un treno carico di blocchi di cemento. La rabbia le implodeva nel cuore e in pochi secondi trovo’ l’uscita negli occhi. Cieca di pianto cercava una spiegazione. Lui non era credente, avrebbe potuto giurare anche il falso, per lei, e gli avrebbe creduto.  Aveva bisogno di quella parola per placare l’ansia che l’attanagliava da tempo.  “ Giura, perdio, giura “.  Corse a rintanarsi nella solita tana silenziosa, come faceva ogni volta che stava male. Chiudeva tutte le finestre e rimaneva al buio. Dormiva per non pensare e non mangiava per sentire il vuoto acuirsi e divorarla fino a ucciderla.  I giorni passavano e Nina viveva camminando sulle mine a uomo. Scoppiava in pianti disidratanti e rabbia per ogni cosa. Trattava male chiunque cercasse di farla ragionare. “ Non e’ vero che ti tradisce. Ti ama sul serio. Ha un brutto carattere, non vuole imposizioni, ma ci sei solo tu per lui “.  Le parole degli altri erano spade. Non consolavano affatto. Oltre al tradimento, ora subiva l’affronto di sentirsi dire “ Hai sbagliato “.  Caccio’ per giorni chiunque le desse torto, e poi, una sera, la certezza del tradimento di Carlo comincio’ a perdere potere o, forse, il bisogno di lui prendeva forza. Qualunque cosa fosse, la spinse a scrivergli una lettera nella quale spiegava i motivi di quella richiesta. In fondo le dispiaceva aver creato tanto caos, ma voleva, pretendeva che lui capisse le sue paure e che la rassicurasse.  Non sapeva neanche da dove cominciare, e inizio’ con un “ ciao “ e una serie di bla bla vari tra cui “ mi dispiace “.  Incalzata dalle amiche, prese coraggio e spedi’ la lettera.  Quello che ricevette in cambio, fu un Oceano di niente. Nessuna risposta, nessun tentativo di comunicare. Carlo parlava con tutti, tranne che con lei. Riprendeva forza l’idea di un’anima piu’ speciale della sua. Doveva essere cosi’. Chi ama non ferisce tanto e Nina sapeva di essere stata tradita e ferita in tutti i modi in cui si puo’ ferire una donna. Era umiliante il silenzio di lui, lo odiava immensamente per questo, ed era stato umiliante chiedere scusa come se il torto fosse stato solo il suo, oltretutto, a chi  ” scusa ” non lo aveva chiesto mai.  Questo silenzio, questo niente definiva il confine, indicando un burrone poco piu’ in la’.   Cosa ne avrebbe fatto, di tutto l’amore che rimaneva, Nina non lo sapeva. Se lo sarebbe portato dietro per un po’, come una zavorra pesante incollata alla schiena ? Oppure lo avrebbe divorato e ingoiato come un cumulo di sabbia a formare dune nello stomaco ?   Il deserto, non avrebbe comunque potuto essere piu’ arido.

La sera a casa di Alberto

.

Alberto era una puttana. Un trasformista, un ruffiano, un doppiogiochista. Un uomo d’affari, soprattutto quelli degli altri .Un pettegolo esuberante con una grave forma di bipolarismo. Alternava momenti di gioia assoluta ad altri di totale silenzio e malinconia. Una personalita’ fragile, scissa in mille altre come i frammenti di uno specchio rotto.

Abitava nella mansarda di uno stabile, e nei momenti malinconici si rintanava in casa per giorni. Un topo in soffitta. Non era altro che questo. L’arredamento minimalista era dovuto piu’ alla sua apatia che non a un gusto personale. Ma nei momenti gai della sua vita, comprava dei fiori e metteva in ordine l’appartamento. Apriva le finestre anche in inverno ed esulatava durante i temporali. L’acqua entrava in casa formando una pozza sul pavimento, e Alberto rideva bagnandocisi i piedi. Non conosceva nessuno nel palazzo. Spesso schivo, a malapena veniva avvicinato dagli altri inquilini. Eppure, di tutti quegli sconosciuti Alberto sapeva molte cose.

Aveva posizionato un piccolo tavolo sotto la finestra. Da li’, osservava le vite degli altri e ne prendeva nota su un album da disegno. Non segnava i nomi delle persone di cui scriveva, le ritraeva.

Nina abitava al penultimo piano del palazzo difronte, e lo aveva notato piu’ volte sbirciare nel suo appartamento.

Stranamente non ne era infastidita, anzi, spesso aveva lasciato le tende aperte proprio perche’ lui potesse guardarla. Non dava l’idea di essere un maniaco o roba simile. Sembrava un uomo solo, niente di piu’.

Nina non gli permise mai di vedere oltre la sala o la cucina, ma un giorno apri’ la finestra della stanza da letto e i loro sguardi si incrociarono. Entrambi alla finestra, si fissarono per una manciata di secondi. Poi lui la vide sorridergli e correre in cucina, aprire una credenza e tirar fuori una scatola, infilarsi  una giacca e correre giu’ per le scale, attraversare il cortile e poi scomparire sotto le grondaie. Alberto si sporse dalla finestra e, non vedendola piu’, si lascio’ cadere sulla sedia. Prese la matita e comincio’ a tracciare le linee di lei sul foglio. Poi il campanello suono’. Era cosi’ intento nella sua opera che non lo senti’ nemmeno, e quello suono’ dinuovo.

Nina stava sulla porta e gli sorrideva. Lui sembrava un ebete. Stava fermo davanti a lei senza muoversi, senza dire niente. Non l’aveva mai vista da cosi’ vicino. Seguiva le linee del suo viso come se le stesse gia’ disegnando. Poi il suo sguardo sorpreso incontro’ gli occhi grandi di lei.

” Ho portato caffe’ e cioccolata “. Disse.

Alberto si scanso’ e le fece cenno di entrare.

Nei due anni successivi divennero, piu’ o meno, indivisibili. Alberto non si allontanava mai a lungo dalla sua tana, cosi’ la mansarda divenne il loro rifugio, ristorante, discoteca, sala da te’, confessionale e angolo del pettegolezzo. Tutto a seconda dell’umore di lui.

Poco tempo dopo, anche Carlo conobbe Alberto. Divennero presto complici e, molto piu’ spesso di quanto lei stessa credesse, fissavano Nina dalla finestra. Ne controllavano le azioni, le visite degli amici, le uscite. Ogni cosa. Carlo sapeva riconoscere lo stato d’animo di Nina da come lei apriva le finestre. Quando tutte erano chiuse, Nina stava male. Riservata com’era, tendeva a nascondersi ogni volta che qualcosa non andava. Poteva stare giorni senza parlare e ne’ Carlo, ne’ Alberto riuscivano ad avere notizie di lei. Le finestre indicavano un miglioramento quando cominciavano a riaprirsi. Non subito spalancate. Appena socchiuse, come fossero timide. In quei giorni Carlo non poteva avvicinarsi. Non li aveva mai capiti fino in fondo i silenzi di lei, ma lasciava dei segnali a casa di Alberto. Canzoni d’amore, messaggi, qualche volta poesie o lettere.

Ogni volta che Nina tornava a star meglio, correva da Alberto a cercare quei segnali e, quando li trovava, le finestre tornavano a spalancarsi sul mondo.

Alberto era una puttana. Non era fedele a nessuno. Era complice di Carlo tanto quanto di Nina.

Spiattellava all’uno e all’altra le cose di entrambi. Quando loro litigavano, la parte piu’ debole era Nina e Alberto si sentiva in dovere di raccontarle Carlo il piu’ possibile.

Spesso, pero’, si infuriava a tal punto da non parlare neanche con Alberto, e Nina perdeva il senso dell’orientamento. Trovandosi in un mare di niente, tornava a chiudere le finestre.

Carlo era un uomo ostinato, spesso ottuso e prepotente. Tendeva sempre ad alzare la voce e usava spesso un linguaggio volgare che Nina detestava. Nei modi gentili di lei, aveva sempre pensato, non c’era spazio per turpiloqui e toni alti. Non chiedeva mai scusa quando sbagliava e, ovviamente non lo avrebbe mai ammesso, con lei sbagliava spesso. Sbagliava i tempi, sbagliava le parole, sbagliava i modi,  sbagliava persino i silenzi e si irritava non poco se lei non seguiva il suo stile di vita estremamente salutista. Nina avrebbe dovuto vedere Carlo come l’esercito della salvezza. Cosi’ non era, ma lo seguiva ugualmente. Era di certo una donna che amava troppo. Cominciava a sentir svanire la sua personalita’ per far posto a quella di Carlo. In cuor suo sapeva… Questa cosa l’avrebbe distrutta. Carlo non era disposto a scendere a compromessi per lei. Non avrebbe rinunciato a niente e non l’avrebbe mai accettata cosi’ com’era. Pur non ammettendolo, lui aveva ricevuto molto piu’ amore di quanto ne avesse dato.

Fu Alberto a dire a Carlo del bambino. Nina, da sola, non ce l’avrebbe fatta. Carlo rimase impassibile, poi se ne ando’ senza dire una parola. Il giorno dopo chiamo’ Nina. Parlarono poco. Nina cambio’ subito discorso. Non poteva parlarne, e non lo avrebbe piu’ fatto. Quella fu la prima volta in cui Alberto venne tenuto fuori.

” Carlo e’ uno stronzo, non lo cambierai, ma ti ama. Almeno cosi’ dice “. Alberto glielo ripeteva spesso, quasi a volerla convincere dell’amore di lui, ma quando terminava la frase con ” almeno cosi’ dice… “, Nina veniva attraversata da un brivido fatto di dubbi e terreni frananti.

E poi, dal niente, spunto’ il silenzio, la mancanza di attenzioni, e la percezione assoluta, per Alberto e Nina, di essere diventati una cosa certa, scontata. Vecchi giocattoli che Carlo non aveva piu’ paura di perdere. Uno specchio all’ingresso nel quale nessuno si riflette piu’. Un libro impolverato con una dedica letta mille anni prima, e poi mai piu’.

Dopo tutti quegli anni insieme, qualcosa in Carlo era cambiato. Non passava quasi piu’ da Alberto e raramente lasciava messaggi per Nina, anche quando sapeva che le sue finestre erano chiuse.

Nina invece passava ogni giorno. Non lasciava messaggi per Carlo ma tornava ogni sera a vedere un ritratto che Alberto gli aveva fatto il giorno del suo compleanno. In quella foto Nina e Carlo si stringevano in un bacio. Non erano le labbra che si univano, che Nina fissava, ma il braccio di lui intorno alla sua schiena. Se chiudeva gli occhi, poteva sentirne la pressione sulle spalle e ancora la sensazione di quel momento. Si erano amati. In quel giorno lui l’aveva amata davvero.

Guardando la foto, ora, Nina sentiva forte la distanza di Carlo, e proprio a un passo dalla convinzione che il loro amore era finito lui tornava a chiamarla.

” Ti amo Nina, mi manchi ”

” Ti amo  Carlo, sempre ”

La mansarda  sembrava ranimarsi dinuovo. Quella luce accesa era una finestra sulla vita di Carlo e Nina.  Alberto sarebbe stato la puttana che la abitava, il faro nella notte, per ancora molto tempo

( forse  )

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Di ragni e falene

ragno falena

Carlo  aveva tessuto negli anni una ragnatela abbastanza fitta perche’ lei non potesse fuggire. E al brillare di quella bava di ragno, fatta di musica, parole e promesse, Nina aveva ceduto.

Indossando la tela come un abito da sera,  aveva danzato sui fili d’argento, seducendo il suo ospite. Confusi, in fine, sul ruolo di preda e predatore, Carlo e Nina si erano fusi  nell’anima, nel corpo, nella mente. Un solo pensiero, perso nel gioco delle parti. Entrambi carcerieri, entrambi prigionieri.

Per quanto ricordassero, non c’era stata vita prima di loro. Un finto qualcosa. Una reale pochezza. Un lento trascinarsi nel mondo aggrappati a rapporti effimeri. Erano indicibilmente soli e insofferenti al comune amore. Avevano trascorso gli anni senza cercarsi, aspettando di trovarsi e colmare finalmente quel continuo languore dell’anima.

Si riconobbero al primo sguardo. Poi non ebbe piu’ importanza aspettare il futuro.

Era in un locale con degli amici, coinvolta in conversazioni sterili dalle quali sarebbe fuggita con la piu’ banale delle scuse. Massimiliano minaccio’ di raccontare una delle sue barzellette e Nina avverti’ un crampo allo stomaco. Sbuffo’, indelicata come solo lei sapeva essere, e sotto il cappello rosso alzo’ gli occhi al cielo.

Carlo stava andando verso di lei. La guardava e le sorrideva come se avessero un appuntamento… e lo avevano.

Massimiliano smise improvvisamente di raccontare la sua idiozia. ” Ecco Carlo ” disse; un amico conosciuto chissa’ dove, chissa’ come, tramite chi… Nina non capiva. Non era importante. Quando arrivo’ il suo turno di presentarsi, Nina allungo’ la mano, lui l’afferro’ e la tiro’ su. Si abbracciarono come due amici appena ritrovati, lasciando gli altri a darsi occhiate complici. Non era banale il loro gesto, non c’era imbarazzo per nessuno. Tutto era naturale, come riunire i pezzi di una maschera  il cui volto, in un tempo lontano, era stato tagliato a meta’.

Qualcuno, all’altro capo del tavolo, propose una foto di gruppo. Nina appoggio’ la schiena al petto di Carlo. Lui la abbraccio’ da dietro. Si appartenevano gia’.

L’alba li scopri’ a recitare sospiri mai sospirati e parole mai pronunciate.

Quello che li avvolgeva non era la scoperta del sentimento, ma qualcosa di tragicamente raro. Il senso di completezza, di appartenza, che fugava il vuoto dentro di loro sostituendolo con la paura di perdersi.

Entrambi sapevano:  Perdere l’altro significava tornare ad essere una meta’.

La passione puo’ uccidere. Loro ne mettevano troppa in ogni cosa. Non solo nell’amore, ma anche nell’odio, nelle discussioni, nelle banalita’, in una risata, in un pianto. Stare insieme era come passeggiare su un campo minato.

Capitava, a volte, di fare l’amore dopo aver litigato o di gridarsi parole d’odio subito dopo averlo fatto.

Una notte, infuriato,  la fece scendere dalla macchina e lascio’ che tornasse a casa a piedi. Nina non gli parlo’ per giorni e poi… non lo ricordava neanche piu’ come fini’ dinuovo nel suo letto.

Dopo una discussione passavano giorni, prima di riparlarsi. Nessuno cedeva per primo. Il loro riavvicinarsi era un universo costellato di segnali. Luci, suoni, piccoli messaggi che altri recapitavano all’uno e all’altra, ma che solo loro due erano in grado di decifrare. Una lingua inesistente. Un alfabeto privato. Un continuo non perdersi, per anni.

Dopo la perdita del bambino, Nina fu troppo fragile per resistere all’assenza di lui. Troppo debole per rialzarsi da sola. Ormai senza forze per combattere qualunque conflitto, quando lui torno’ pote’ prendere il sopravvento. Come una falena intrappolata nella ragnatela, Nina smetteva di dibattersi. Le ali rimasero ferme, bloccate nella tela.

Tutto sembrava avere inizio, di nuovo. Ma la passione li aveva uccisi. Carlo non tesseva piu’ tele d’argento per lei. Non c’era piu’ musica per cui danzare, parole magiche da ricordare, ne’ pensieri da scrivere.  Lui era il predatore e Nina si arrendeva al ruolo di preda.

Ora Carlo la mangiava…  e cominciava dal cuore.

( Forse )

Amore, rosso amore

Serrava le gambe come per trattenerlo. E il sangue colava comunque. Scuro come le ombre, lucido come una lacrima.

Il dolore al ventre era insopportabile e Nina si piegava in avanti per cercare di alleviarlo. Se ne stava accovacciata in un angolo del bagno, sola come le fiere ferite. Lontana dai rumori. Lontana da altri occhi. La vita oltre la porta giungeva ovattata come in fondo al mare.

” E se diventassi padre ? “. Aveva chiesto insicura.

Tre, cinque, dieci ? Non lo sapeva, Nina, quanti giorni fossero trascorsi da quella domanda, ma se n’erano andati lenti come anni e della risposta di Carlo non era rimasto che un suono. Solo un rumore. Aveva risposto? Aveva riso? Aveva borbottato qualcosa. Che cosa? Era la terza volta in due giorni che gli poneva la stessa domanda e di lui ricordava solo di averlo visto cercare le notizie alla radio dopo essersi lamentato per il traffico.

Si era voltata e aveva guardato fuori dal finestrino. Nella macchina accanto, una coppia discuteva animatamente.

Lei piangeva, lui batteva forte le mani sul volante. Penso’ che almeno quei due avessero di che parlare.

” Non glielo chiedero’ piu’. Non lo vuole. Non mi vuole “, penso’ mentre Carlo tentava di infilarsi in un varco tra due macchine. E gia’ si immaginava lontana nel tempo. Sola, lei e questo figlio segreto. ” Un maschio. Sara’ un maschio e somigliera’ a lui “. Il pensiero scivolo’ sull’immagine di se’ durante il parto. Nonostante tutto, era felice. Accenno’ involontariamente un sorriso tirato, e un silenzio assordante si sedette sul sedile posteriore accompagnandoli per tutto il viaggio.

Un crampo doloroso la riporto’ al presente. L’odore acre del sangue era pregno di speranze svanite.

Carlo sembrava distante anni luce da quel futuro che avevano sognato insieme.

Se solo le avesse chiesto qualcosa. Il perche’ di quella continua domanda. O se solo le avesse preso la mano, come aveva sempre fatto, per dirle “ Amore mio “. Allora si, gli avrebbe raccontato tutto.

Gli avrebbe detto del bambino. Avrebbero gioito prima, e pianto poi per averlo perso. Insieme.

Il cuore di Nina era una foglia nel vento. Viaggiava senza meta da una sensazione all’altra. Senza fermarsi.

“ Chiamami ti prego. Cercami. Chiedimi. Resta con me. No. Sparisci. Ti dimentichero’ come tu hai dimenticato me. Sara’ facile e tu non saprai mai di questi giorni “.

Il tempo era fermo in un limbo di confusione. Che fare? A chi gridare questa inquietudine, questa perdita, questa totale sconfitta di vita?

Carlo, il bambino, l’amore, il futuro. Tutto era perduto. Lui non chiamava da giorni e lei s’era chiusa in una caverna di silenzio.

Si alzo’ lentamente. Un lamento usci’ a bocca chiusa. Sembro’ il cigolio d’assestamento di un vecchio mobile. L’acqua calda comincio’ a scorrere nella vasca e un rivolo di sangue percolo’ sulla gamba.

Pianse. E tra le lacrime senti’ forte la voglia di chiamarlo. Prese il telefono, compose il numero e riaggancio’ prima che questo cominciasse a squillare.

Si immagino’ patetica. Una figura di donna senza orgoglio, che chiama cercando consolazione. Una telefonata ricolma di puro pietismo.

“ NO. Io non sono questa “.

Si immerse nella vasca e lascio’ che l’acqua le coprisse il viso.

In quello spazio ristretto, una decisione prese a galleggiare.

“ Silenzio. Questo ti daro’. Distanza per distanza. Il mio niente per il tuo. La mia assenza per la tua. E poi un giorno tornerai. E io ti diro’ questo momento. Trovero’ le parole. Trovero’ il modo “.

Si senti’ svanire. Confondersi con l’acqua. Come se il confine di se’ non fosse delimitato.

Un disegno a matita quasi cancellato. Si senti’… niente.

Continuava a immaginare il momento in cui lui fosse tornato. Le avrebbe detto che aveva sbagliato a lasciarla e che lo vedeva ancora quel futuro con lei. Avrebbero avuto un altro figlio e lui lo avrebbe definito ” Un capolavoro “. E lei sarebbe affogata in un pianto dirotto, scevro di segreti.

Usci’ dall’acqua e si aggrappo’ a l’immagine di lui. Passo’ la mano sullo specchio e tra le lacrime del vapore si scopri’ a sorridere.

Glielo avrebbe detto, un giorno. Quel giorno.

Giro’ la chiave e apri’ la porta. Usci’ silenziosa come un felino. Lasciando perdersi nel vapore alle sue spalle un’unica parola… “ Forse “.

Rose a dicembre

In famiglia siamo tutti meticci. Ci siamo spostati, lungo lo stivale, e ci siamo fermati in citta’ con culture diametralmente opposte alle nostre. Li’, abbiamo tirato su famiglia e messo al mondo altri meticci. Ma tutti, indistintamente, siamo partiti dalla meravigliosa Calabria saudita. Siamo Italo-Calabresi e a Natale, tutti, facciamo la Pitta’nchiusa come ce lo ha insegnato zia Rosina. Un dolce che richiede un giorno di preparazione e dieci minuti per essere divorato. Ha la forma di dieci rose, ognuna delle quali e’ ripiena di noci, uva passa, zucchero, cannella e chiodi di garofano. La pitta’ nchiusa di Rosina, dovrebbe essere patrimonio dell’umanita’.

Zia aveva un’eta’ compresa tra i cento e i mille anni, e un soldato nascosto nell’anima.

Mandava avanti la casa da sola e  impartiva ordini a tutto il paese. Niente la scalfiva. Una notizia buona era opera del Signore “ Ma non ti rilassare troppo, che il diavolo e’ dietro l’angolo “.  Una notizia cattiva era “ Che ti avevo detto? “.

La mattina della vigilia, pero’, la gente a San Mauro Marchesato faceva la fila per vederla all’opera. Entravano a salutare, ad augurare Buon Natale, e a cercare di carpire il segreto della pitta. La cucina era caldissima e pregna dell’odore di cannella. Seduta, con le gambe che non toccavano terra, guardavo Rosina che impastava la sfoglia. Il viso duro si  addolciva, e a bassa voce si raccontava a una bambina di otto anni. Il giorno del suo matrimonio, il marito parti’ per la guerra. Non lo rivide mai piu’ e lei porto’ il lutto per i restanti mille anni. Di lui non rimase che il ricordo. Di quel giorno non rimase che un bouquet di rose in una madia.

Ogni anno, la viglia di Natale, Rosina ricomponeva quel bouquet in un dolce, il cui unico segreto era l’amore.                                                                                                                                                                                      ( Sabrina S. )